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Se dopo l’età postmoderna viene l’età moderna

Quale che ne sia il motivo (io ve ne propongo due: i vincoli di bilancio europei e il fatto che ingenti capitali sfuggano alla tassazione perchè abbiamo una economia sempre più fondata su internet) negli ultimi venti anni ci troviamo costantemente a fare i conti con una riduzione della spesa sociale al netto delle pensioni e negli ultimi 10 anche al lordo delle pensioni.

Non ho ancora preso ad analizzare dati in questo senso, ma credo che sia facile dimostrare come la disponibilità complessiva di risorse sui bilanci pubblici – se si escludono l’ingente spesa per interessi e l’inflazione – si sia ridotta negli ultimi 15 anni.

Ad ogni modo, la Repubblica nelle sue articolazioni (Comuni, Province,  Città metropolitane, Regioni e Stato), arretra nel campo della spesa sociale. E l’effetto netto è che il rapporto tra le Istituzioni e le organizzazioni civiche cambia radicalmente. 

La mia convinzione è che la transizione epocale cui abbiamo dato il nome di crisi globale sia un fatto permanente, e non  passa come se fosse un ciclo economico particolarmente duro; un ciclo che poi finisce per tornare in posizione di partenza.
Viviamo piuttosto una transione epocale che sta cambiando i rapporti sociali e l’economia in maniera radicale e duratura.

Come in ogni transizione epocale, dobbiamo mettere le basi per il nuovo mondo che viene dopo: la transizione apre spazi di protagonismo sociale  e di imprea sociale per chi voglia attivare la costruzione di pezzi di welfare, che durino, dico io, per i prossimi due secoli

Siamo chiamati ad organizzare le migliori risorse dei territori, ad attivare esperienze che diano strumenti alle comunità di dare risposta ai bisogni e ai bisognosi che ne fanno parte. Ciò vale per tutti i settori: nella sanità, ad esempio, attraverso le mutue. Ma anche la capacità di finanziare le esperienze nei territori attraverso le fondazioni di comunità.

La transizione cui ho fatto cenno è un balzo indietro nel passato di alcuni secoli: nella seconda metà del ‘500, ad esempio, Bernardo Giovino avviava quella che sarebbe diventata l’Arciconfraternita dei pellegrini; nella prima metà dello stesso secolo dei nobili napoletani fondavano il Pio Monte della misericordia per affrontare il problema della povertà e più o meno negli stessi decenni altri fondavano il Monte di Pietà per affrontare i danni sociali dell’usura. Napoli è stata indicata come la capitale della filantropia: queste persone non andavano dal sovrano a richiedere un intervento del Regno (oggi diremmo: dello Stato, del comune, della Regione). Si attivavano in proprio, attivavano le risorse, anche economiche e finanziarie che le comunità avevano al proprio interno per affrontare i problemi (i poveri, le vittime degli strozzini, i pellegrini – vagabondi) che le medesime comunità evidenziavano al loro interno. 
Nelle comunità i problemi, nelle comunità le soluzioni.

A me pare che stiamo andando in questa direzione e che, di fronte al bisogno sociale se non ci attiviamo noi, che le comunità le rappresentiamo, si attiveranno – si stanno attivando, si sono attivati – altri, che le comunità le usano al proprio servizio. Il mondo della finanza globale, ad esempio.

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